AVREI SPALATO LA SIBERIA
Davvero, avrei spalato la Siberia fino a spianarla,
in quel periodo di vacche magre; alacremente, voluttuosamente,
forsennatamente, con un’energia proporzionale
al colore verde-senza-speranza delle mie tasche di
studente squattrinato. Volevo che nevicasse, quasi
lo pretendevo, perché avevo in animo di correre
a spalar neve dietro compenso. Anche questa era un’idea
di Sergio, che quando c’era da tirar su qualche
lira godeva dell’abilità straordinaria
di saper scovare occupazioni transitorie e brevissime,
meglio ancora se spossanti, inverosimili o del tutto
cretine. Aveva sentito previsioni del tempo che sentenziavano
neve in Pianura Padana, e aspettava con gli occhi
al cielo. Io aspettavo con lui. Vedemmo piovere, venire
il sole e dopo ripiovere, nell’arco di quarantotto
ore che sarebbero dovute essere il primo passo verso
la groenlandizzazione della Lombardia. Invece niente.
M’ero già messo l’animo in pace
quando, alle quattro di mattina, squillò il
telefono. “E’ quel deficiente di Sergio”
disse mio padre, arrochito e glaciale, porgendomi
la cornetta. Sergio invece cinguettava come un fringuello
in amore: “Arrivo fra dieci minuti: nevicaaaaaa!”
mi urlò. Passai i primi cinque di quei dieci
minuti coprendomi come fossi Amundsen in partenza
verso i resti del dirigibile Italia, al Polo Nord.
Poco dopo, zigzagando sopra dieci centimetri di neve,
sbucò la Prinz di Sergio. La NSU Prinz era
un’utilitaria fisiologicamente portata verso
lo sculettamento. Sembrava ancheggiasse perfino da
ferma, figuriamoci sopra la neve. Come il cielo volle,
arrivammo in uno dei punti di raccolta dove il Comune
reclutava spalatori. C’era un pienone da derby.
Alla luce di una lampadina tanto pudibonda che quasi
non faceva luce, in una mescolanza di aliti che sembravano
ghiacciarsi oltre le labbra, decine di poveracci aspettavano
in fila il loro turno. C’era di tutto. Sergio
e io attirammo l’attenzione, e sì che
sembravamo parecchio male in arnese anche noi. “Cos’è,
la mammina ha mandato questi bei signorini a vedere
come è dura la vita?” fece uno che aveva
appena finito di dire al vicino di avere quattro figli
e di essere disoccupato da due anni. “Ma questi
ce la faranno a tenere in mano la pala, o ci toccherà
spalare via anche loro?” aggiunse un altro,
che aveva appena finito di dire a quello dietro che
a San Vittore non è che si stesse male, tolto
il problema della mancanza di donne. “Mica mi
sembra bello togliere il lavoro a questi qui, noi
non è che abbiamo bisogno” bisbigliai
a Sergio. Lui si strinse nelle spalle. Intanto la
fila si andava esaurendo. Come il solito Sergio mi
precedeva. Vidi che prese a frugarsi nelle tasche,
fino a porgere qualcosa all’uomo dall’apparenza
gorilloide che stava seduto dietro un piccolo tavolo,
e doveva essere il reclutatore. Mi venne il dubbio
che per poter spalare la neve toccasse anche pagare.
Invece non erano soldi il qualcosa che Sergio aveva
estratto dalla tasca interna del giaccone. “Documento
di identità?” mi sentii chiedere dall’uomo
gorilloide seduto dietro il tavolino. Sbiancai, e
non era per essere in tinta con la neve che avrei
voluto spalare. M’ero messo addosso un vestiario
parecchio dismesso e alternativo, sapevo di non avere
con me nessun documento utile alla mia identificazione.
Ciò nonostante presi a frugarmi allo spasimo,
snidando banconote scadute, chiodi, mozziconi di matita,
sigarette sbriciolate, oltre a un porco demonio di
accendino che tanto avevo lacrimato come perso all’epoca
in cui ancora fumavo. “Ma cosa gliene frega
alla neve di sapere l’identità di chi
la spala?” azzardai trafficando. “Ehi,
fanciullo, qua siamo a Milano, non in Tanganica, e
le cose le facciamo come si deve” replicò
l’uomo gorilloide. Prima che mi sbattessero
in malo modo fuori della fila feci in tempo a dire
che in Tanganica magari neanche nevicava mai. Escluso
e umiliato vidi la masnada salire sopra tre camion
residuati bellici, Sergio nel mezzo. Per tornare a
casa dovetti farmela a piedi in un panorama da dottor
Zivago. Meditavo di ritentare l’indomani, ovviamente
previo sostegno di tutti i documenti possibili. A
mezzogiorno, invece, già stava piovendo. Per
mettere fuori combattimento Sergio quelle poche ore
erano bastate. Quando due giorni dopo lo andai a trovare
stava ancora a letto, dolorante di tutti i possibili
dolori, in un’atmosfera di alcol canforato e
vegetallumina che tagliava il fiato. “La prossima
volta bisogna mettersi una fascia elastica”
decretò con il piglio del veterano. Per quell’inverno,
invece, non nevicò più. Giovanni Chiara
Disegno di Marika Ortelli