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corso 22 marzo e QUATTRO: neve a milano e in pianura padana
 
Testi e immagini a forniti da "QUATTRO"
 

neve a milano e in pianura padana

neve a milano e in pianura padana


 
 

AVREI SPALATO LA SIBERIA


Davvero, avrei spalato la Siberia fino a spianarla, in quel periodo di vacche magre; alacremente, voluttuosamente, forsennatamente, con un’energia proporzionale al colore verde-senza-speranza delle mie tasche di studente squattrinato. Volevo che nevicasse, quasi lo pretendevo, perché avevo in animo di correre a spalar neve dietro compenso. Anche questa era un’idea di Sergio, che quando c’era da tirar su qualche lira godeva dell’abilità straordinaria di saper scovare occupazioni transitorie e brevissime, meglio ancora se spossanti, inverosimili o del tutto cretine. Aveva sentito previsioni del tempo che sentenziavano neve in Pianura Padana, e aspettava con gli occhi al cielo. Io aspettavo con lui. Vedemmo piovere, venire il sole e dopo ripiovere, nell’arco di quarantotto ore che sarebbero dovute essere il primo passo verso la groenlandizzazione della Lombardia. Invece niente. M’ero già messo l’animo in pace quando, alle quattro di mattina, squillò il telefono. “E’ quel deficiente di Sergio” disse mio padre, arrochito e glaciale, porgendomi la cornetta. Sergio invece cinguettava come un fringuello in amore: “Arrivo fra dieci minuti: nevicaaaaaa!” mi urlò. Passai i primi cinque di quei dieci minuti coprendomi come fossi Amundsen in partenza verso i resti del dirigibile Italia, al Polo Nord. Poco dopo, zigzagando sopra dieci centimetri di neve, sbucò la Prinz di Sergio. La NSU Prinz era un’utilitaria fisiologicamente portata verso lo sculettamento. Sembrava ancheggiasse perfino da ferma, figuriamoci sopra la neve. Come il cielo volle, arrivammo in uno dei punti di raccolta dove il Comune reclutava spalatori. C’era un pienone da derby. Alla luce di una lampadina tanto pudibonda che quasi non faceva luce, in una mescolanza di aliti che sembravano ghiacciarsi oltre le labbra, decine di poveracci aspettavano in fila il loro turno. C’era di tutto. Sergio e io attirammo l’attenzione, e sì che sembravamo parecchio male in arnese anche noi. “Cos’è, la mammina ha mandato questi bei signorini a vedere come è dura la vita?” fece uno che aveva appena finito di dire al vicino di avere quattro figli e di essere disoccupato da due anni. “Ma questi ce la faranno a tenere in mano la pala, o ci toccherà spalare via anche loro?” aggiunse un altro, che aveva appena finito di dire a quello dietro che a San Vittore non è che si stesse male, tolto il problema della mancanza di donne. “Mica mi sembra bello togliere il lavoro a questi qui, noi non è che abbiamo bisogno” bisbigliai a Sergio. Lui si strinse nelle spalle. Intanto la fila si andava esaurendo. Come il solito Sergio mi precedeva. Vidi che prese a frugarsi nelle tasche, fino a porgere qualcosa all’uomo dall’apparenza gorilloide che stava seduto dietro un piccolo tavolo, e doveva essere il reclutatore. Mi venne il dubbio che per poter spalare la neve toccasse anche pagare. Invece non erano soldi il qualcosa che Sergio aveva estratto dalla tasca interna del giaccone. “Documento di identità?” mi sentii chiedere dall’uomo gorilloide seduto dietro il tavolino. Sbiancai, e non era per essere in tinta con la neve che avrei voluto spalare. M’ero messo addosso un vestiario parecchio dismesso e alternativo, sapevo di non avere con me nessun documento utile alla mia identificazione. Ciò nonostante presi a frugarmi allo spasimo, snidando banconote scadute, chiodi, mozziconi di matita, sigarette sbriciolate, oltre a un porco demonio di accendino che tanto avevo lacrimato come perso all’epoca in cui ancora fumavo. “Ma cosa gliene frega alla neve di sapere l’identità di chi la spala?” azzardai trafficando. “Ehi, fanciullo, qua siamo a Milano, non in Tanganica, e le cose le facciamo come si deve” replicò l’uomo gorilloide. Prima che mi sbattessero in malo modo fuori della fila feci in tempo a dire che in Tanganica magari neanche nevicava mai. Escluso e umiliato vidi la masnada salire sopra tre camion residuati bellici, Sergio nel mezzo. Per tornare a casa dovetti farmela a piedi in un panorama da dottor Zivago. Meditavo di ritentare l’indomani, ovviamente previo sostegno di tutti i documenti possibili. A mezzogiorno, invece, già stava piovendo. Per mettere fuori combattimento Sergio quelle poche ore erano bastate. Quando due giorni dopo lo andai a trovare stava ancora a letto, dolorante di tutti i possibili dolori, in un’atmosfera di alcol canforato e vegetallumina che tagliava il fiato. “La prossima volta bisogna mettersi una fascia elastica” decretò con il piglio del veterano. Per quell’inverno, invece, non nevicò più. Giovanni Chiara

Disegno di Marika Ortelli

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